In questi giorni si fa un gran parlare del modello coreano per il contrasto alla diffusione del coronavirus. Applicando il loro metodo sono riusciti a minimizzare le perdite umane e a confinare il contagio. Vediamo come.
Dati alla mano, in questo momento, in Corea del Sud sono stati individuati 7.979 casi di coronavirus. Di questi, “solo” 71 hanno perso la vita. Per fare un paragone, quando in Italia avevamo 7.375 casi, i decessi erano 366. È un dato che deve far riflettere. Forse i coreani sono più resistenti degli italiani? Forse il clima è più favorevole? No, nulla di tutto questo. Il digitale svolge un ruolo fondamentale in questa differenza. E potrebbe cominciare a svolgerlo con efficacia anche da noi.
I motivi sono infatti sostanzialmente due: l’individuazione tempestiva dei soggetti positivi; la precisa ricostruzione dei loro spostamenti. Entrambi gli obiettivi sono stati raggiunti utilizzando delle apposite applicazioni per smartphone e rinunciando (parzialmente) alla privacy.
Come riporta Reuters, il Governo di Seul ha dichiarato che, a seguito della sindrome respiratoria del Medio Oriente (MERS) del 2015 è stato avviato un processo di riforma che ha pian piano portato a un controllo capillare da parte dello Stato su una enorme quantità di informazioni e alla creazione di un database accessibile.
In particolare è stata prevista normativamente la possibilità per il Governo di accedere a: filmati CCTV, dati di tracciamento GPS da telefoni e automobili, transazioni con carta di credito, informazioni sull’immigrazione e altri dettagli personali di persone che potrebbero aver contratto, ad esempio, un virus. Le autorità possono inoltre rendere pubbliche alcune di queste informazioni, in modo da permettere un maggiore controllo da parte dei cittadini.
Proprio sfruttando tali database sono state create diverse applicazioni per smartphone utilizzate dai coreani e dal governo al fine di meglio gestire la lotta al coronavirus.
Ma come funzionano questi programmi?
Bae Won-Seok, uno degli sviluppatori di Corona 100m, ha spiegato alla CNN che la sua app consente alle persone di vedere la data in cui un paziente coronavirus è risultato positivo ai test, insieme alla nazionalità, al sesso, all’età e ai luoghi visitati dal paziente. L’utente può anche vedere se nelle sue vicinanze sono presenti altre persone affette da coronavirus.
Allo stesso modo opera anche Corona Map un’altra applicazione molto diffusa in Corea al fine di consentire di individuare zone potenzialmente infettanti.
Ora, a prescindere dallo strumento utilizzato, è evidente che l’utilizzo di questi dati permette di ottenere grandi risultati. In primo luogo, come sopra anticipato, il fatto di conoscere con esattezza i luoghi visitati dal soggetto infetto, permette di isolare con una certa precisione le persone con cui è venuto a contatto individuando facilmente tutti i soggetti positivi. Ricordiamo a tal proposito che la Corea del Sud ha eseguito un enorme numero di tamponi, circostanza che ha influito sull’individuazione tempestiva dei soggetti positivi al coronavirus, i quali venivano così isolati e curati per tempo, evitando in questo modo raggravarsi della situazione.
Per capirci, è ormai nota la vicenda di Mattia, il paziente 1 di Codogno. In quel caso, una delle maggiori difficoltà è stata quella di ricostruire tutti i suoi spostamenti al fine di individuare tutti i soggetti con cui è venuto a contatto. In questo genere di situazioni il tempo è un fattore chiave in quanto, solo isolando tempestivamente i soggetti contagiati si riesce ad evitare che costoro contagino altre persone.
Per addivenire a una simile ricostruzione (che in Italia ha necessitato di giorni) grazie alle app di cui sopra, in Corea sarebbe bastato un solo minuto.
Inoltre, ricostruire gli spostamenti dei soggetti infetti, permette anche di evitare blocchi e divieti nelle aree “sane” della nazione. Per capirci, se non ci sono pericoli di contagio nella zona ovest di Milano (per mera ipotesi), perché chiudere tutto il territorio? La chiusura del territorio del resto, lo abbiamo ormai capito, comporta conseguenze enormi sotto il punto di vista economico e sociale. Dovrebbe essere una ratio estrema, da evitare ogni qualvolta ciò fosse possibile.
Perché l’Italia non adotta le stesse misure della Corea
Ma se possiamo evitare tutti questi effetti negativi, cosa stiamo aspettando? Perché non scarichiamo tutti subito una di queste app?
In Italia ciò, per ora, non è possibile perché il database da cui potrebbero attingere le app è riservato e non pubblico come in Corea. Se ciò sia un vantaggio o meno è difficile dirlo. Di certo, tendenzialmente, credo che sia sconsigliabile rinunciare alla privacy in nome della maggiore sicurezza. Lo dico da sempre e, soprattutto in queste ultime settimane, mi trovo a ribadirlo quasi quotidianamente.
Certo è che, anche chi come me crede nel dogma della riservatezza, non può non vacillare guardando i piatti della bilancia: da un lato abbiamo la privacy e dall’altro il coronavirus. Cediamo la privacy per sconfiggere il virus e limitare per quanto possibile la crisi economica, oppure cerchiamo di battere la minaccia a suon di quarantene e divieti?
Probabilmente qualche settimana fa non avrei esitato a ribadire l’importanza di non cedere ma oggi è difficile a dirsi.
Cedere o non cedere privacy in nome della sicurezza?
Forse, come spesso accade, la soluzione potrebbe essere una via di mezzo: rendere accessibili i dati a taluni soggetti accuratamente selezionati, individuando specifiche regole di ingaggio (magari contenute in accordi di nomina a responsabile esterno del trattamento).
In quest’ottica sarebbe possibile omettere alcuni dati, permettendo comunque alla collettività di raggiungere il medesimo fine. A nessuno del resto interessa sapere il nome, il peso, l’altezza di una persona infetta. Interessa invece sapere se un soggetto infetto è stato nella zona “x” di Milano, così da permettere ai cittadini di evitarla nonché alle autorità di agire individuando potenziali altri infetti e, in un secondo momento, sanificando il tutto.
Questa potrebbe essere una soluzione compatibile con il principio di minimizzazione di cui al GDPR, ma non solo.
Nell’eventualità in cui l’emergenza dovesse perdurare, permetterebbe alle persone di tornare a vivere una vita normale, o quasi. Di andare per negozi, di camminare vicini e di fare tutte quelle cose che fino a poco fa erano normali e che ora non sono concesse. Insomma, anche nella peggiore delle ipotesi (che alcuni pessimisti già avanzano), se questo fosse il nuovo status quo, una simile app, utilizzata in modo corretto, permetterebbe di gestire la vita quotidiana evitando misure drastiche come quelle che il nostro Governo si è trovato costretto ad adottare (stante l’assenza di alternative).
In conclusione, dall’esempio coreano possiamo imparare tanto, ma è necessario adattare il modello a quelli che sono i (giusti) principi del nostro ordinamento. Un corretto bilanciamento di tutti gli interessi in gioco potrebbe portare ad ottimi risultati anche se, al momento, anche qualora si trovasse il miglior assetto, permarrebbe un’ultima cinica variabile: il tempo.