Il mondo del cinema piange un’altra volta. Se ne va la musa inquietante di Dario Argento, l’eroina di “Profondo rosso” (1975), la brillante attrice/cantante/sceneggiatrice e artista che ha attraversato con ironia e passo felpato 50 anni della scema italiana- Di sé diceva “mi piace un po ‘garbeggiare’, nel senso che a una certa età sento che il mio mondo è proprio quello dello spettacolo, ma che adesso mi diverto di più ad applaudire i miei amici piuttosto che stare sotto i riflettori”. Fiorentina di sangue e cultura, nata il 19 giugno 1950, Daria Nicolodi ebbe nella madre, figlia del musicista Alessandro Casella, una vera ispiratrice capace di incoraggiarla a frequentare i circoli intellettuali fino all’incontro con lo scultore Mario Ceroli che divenne il suo compagno, padre della prima figlia Anna.
Nel frattempo Daria si era fatta largo in teatro e l’aveva notata Francesco Rosi offrendole, nel 1970, la prima occasione cinematografica in “Uomini contro”. Allegra, vitale, spiritosa e nottambula, la giovane attrice stabilisce un sodalizio artistico con Carmelo Bene. “Amico soltanto – ricorderà Nicolodi -, uno dei pochi con cui era bello fare ‘nottata’; tanto amico che mi mise nei titoli della sua ‘Salomè’ anche se non era vero perché durante le riprese io ero impegnata in teatro”. Nello stesso periodo ha debuttato in tv con Paolo Poli per il trasgressivo varietà “Babau” con la regia di Vito Molinari e incontra Elio Petri che la sceglie per “La proprietà non è più un furto” al cinema. Intanto avvia anche una personale carriera musicale che la porterà a duettare con successo con Gigi Proietti alla fine del decennio dopo l’affermazione al Teatro Sistina con “La commedia di Gaetanaccio”. Gli anni ’70 la vedono imporsi anche sul piccolo schermo con sceneggiati come “I Nicotera” o “Ritratto di donna velata”. Quando nel 1975 conosce Dario Argento durante i provini di “Profondo rosso” è già un personaggio sulla scena intellettuale romana. Ma la sua Gianna Brezzi, petulante e ironica giornalista che non dà tregua al protagonista Marc (David Hemmings), si staglia nettamente nel panorama cupo e barocco del film, offrendo un controcanto ironico che è parte determinante nel successo della pellicola. Il regista e l’attrice diventano subito una coppia esplosiva: Dario e Daria, un sodalizio artistico e sentimentale che durerà a lungo tra tempeste e riappacificazioni che riguardano anche la creatività del regista, contagiato dalla passione esoterica della sua musa, all’origine di un capolavoro come “Suspiria” e poi, ripetutamente al fianco del marito nell’ideazione dei film successivi. Daria però tiene alla propria identità e all’indipendenza artistica, tanto da affidarsi a Mario Bava nel ’77 per “Schock” e poi nell’81 per “La Venere d’Ille”, ultima opera del maestro. “Da lui – raccontava Nicolodi – ho imparato tantissimo; era un vero gentiluomo d’altri tempi che sul set imponeva il suo stile con gesti minimi; ma poi tornava bambino e genio con i suoi trucchi, visivi, con la sua esperienza, con la fantasia. Quando metteva l’occhio nel mirino della cinepresa, tutti si zittivano”. Con Argento nascono a Daria due figlie, Fiore e Asia, che oggi la ricorda commossa (“‘Riposa in pace mamma adorata. Ora puoi volare libera con il tuo grande spirito e non dovrai più soffrire”). Ed anche molti momenti creativi, che però fanno sentire l’attrice e la donna non sufficientemente valorizzata, all’ombra del marito. La loro separazione nella vita darà sempre a ritorni artistici, fino all’ultimo capitolo della trilogia delle “Madri”. Sempre più raramente protagonista in scena dagli anni ’90 in poi, Daria Nicolodi rivendicava il ruolo di “nonna felice”, anche se talvolta si è concessa delle partecipazioni originali come nell'”Ispettore Coliandro” dei Manetti Bros o nella miniserie di Sky “Il mostro di Firenze”. Al cinema ha accettato di recitare per sua figlia Asia in “Scarlet Diva” (2000), ma la sua vita era ormai altrove, tra gli studi esoterici, la passione per l’arte, il gusto di ritrovare la sua città d’origine, anche se il suo ultimo passo lo ha compiuto a Roma. Con lei se ne va l’icona del horror italiano, ma lei avrebbe forse preferito essere oggi ricordata come un’artista completa che sapeva sorridere alla vita e ironizzare su se stessa.